Untitled, 2013 plastica, smalto, terra, pianta di Cycas, legno, cm 140 x 93 x 76
BUBO 01 2013, acquerello su carta, cm 150 x 200
BUBO 02 2013, acquerello su carta, cm 130 x 230
BUBO 03 2013, acquerello su carta, cm 150 x 200

Bubo

DESCRIZIONE

TRATTO DA “UN ET A ROMA”

DI TOMMASO PINCIO

Guardando le immagini dei suoi vecchi lavori, ascoltando le vecchie storie di ET, mi domandavo cosa ne sarebbe stato di tutto ciò, che direzione avrebbe preso il suo sguardo, verso quale periferia si sarebbe rivolto ora che si trovava a Roma. Non che Roma manchi di periferie, naturalmente. Esiste anzi, in materia, una sin troppo vasta e agiografica letteratura. Nondimeno Roma è un luogo che rivendica una centralità forse velleitaria ma comunque assoluta, tanto da incarnare l'idea stessa di centro.

Roma caput mundi, non farci i conti è impossibile. 

Come sua abitudine, ET usciva ogni mattino di buon ora e andava a correre. I primi tempi gli chiedevo dov'era stato, che percorso aveva seguito. Macinava chilometri, ma per quanti ne macinasse non si addentrava mai nelle vere periferie di Roma. Ci si avvicinava, le lambiva. Perlomeno stando a quel che mi riferiva. Sul momento restai deluso, così smisi di fargli domande. Pensai che tutto sommato ET non era diverso dagli altri. Roma, diceva un generale nemico che la occupò nell'ultima guerra mondiale, è un luogo dove ci si corrompe benissimo, ed ET sembrava esserne rimasto corrotto come tanti altri. Sedotto anche lui dal morbo romano, la molle illusione di sentirsi al centro delle cose e di un tempo eterno, si era innamorato dello studio che l'Accademia gli aveva assegnato. C'è una luce incredibile, diceva. Era vero, era davvero una luce incredibile, che cadeva soltanto dall'alto e uniformemente, innaffiando lo spazio di un lucore morbido e diffuso, sicché non c'era una parte che fosse più in ombra di un'altra, quasi una mano di imbiancatura. Era una luce immutabile, sempre la stessa intensità con la pioggia o col sole e a qualunque ora del giorno, soltanto un poco affievolita all'imbrunire, ma questa è una mia congettura visto che capitavo sempre nel suo studio sempre alla stessa ora, dopo pranzo, e solo rare volte dopo cena, quando comunque era già buio. Un rifugio perfetto per un artista, oltre che un luogo astratto; ET ne era al tal punto entusiasta che meditava di cambiare il suo modus operandi. Avrebbe usato le periferie romane senza muoversi dallo studio, usando le visioni satellitari disponibili in rete. E così fece. Dopo qualche tempo iniziò a dipingere alcuni dei quartieri situati ai margini della città. Di essi ignorava ogni cosa, come si chiamassero, quale fosse la loro composizione sociale. Agglomerati suburbani che aveva esplorato soltanto virtualmente e dall'alto, da una prospettiva aerea preclusa finanche ai volatili, una prospettiva extraterrestre. Da quell'altezza astratta, il solo dato certo che poteva cogliere, a parte la forma, era la loro distanza dal cuore di Roma. Dipinse quei quartieri su grandi carte, abbozzando a matita le sagome degli edifici, delle aree verdi, delle strade, dopodiché le colorava, ad acquarello. Nell'economia del lavoro di ET un simile approccio era rischioso: poteva essere interpretato come un gratuito indulgere a un compiacimento tutto pittorico. Osservando quei dipinti in corso d'opera dove interi pezzi di città assumevano l'aspetto di intarsi decorativi, mi ripetevo che ancora una volta Roma aveva avuto la meglio. Sembrava un lavoro stolido, un banale esercizio di coloritura applicato alla topografia. Col tempo, guardandole meglio e ripensandoci, mi resi però conto che quelle carte erano mappe mancate. Riproducevano meticolosamente un luogo reale per come lo si poteva osservare dall'alto, ma quanto al posto che esso occupava nella realtà nulla era dato sapere. Attorno alle sagome di quei quartieri non c'era che il bianco della carta, un bianco virginale che suscitava un po' di inquietudine, come se il resto del mondo fosse stato cancellato, spazzato via da una catastrofe che con chirurgia insensata aveva salvato soltanto quei quartieri e nient'altro. Oppure, ipotesi ancor più suggestiva, avrebbero potuto essere mappe di un tempo futuro o alternativo, parallelo o comunque un tempo senza più memoria del nostro, mappe nelle quali un nostro discendente, cartografo dilettante, rappresenterà con precisione tutto il mondo a lui conosciuto, il suo quartiere, lasciando in bianco il mondo attorno perché dimenticato o ignoto, un po' come facevano i cartografi in passato, quando la mappatura globale del pianeta era ancora di là da venire. Alla luce di quest'ultima ipotesi non sembrava più un caso che la celebre locuzione latina Hic sunt leones si dovesse proprio ai Romani antichi, che nelle loro carte così segnavano il confine oltre il quale si stendevano lande di cui nulla si sapeva fuorché la probabile presenza di bestie feroci.

Il rapporto di Roma con l'arte della cartografia è di vecchia data e tormentato. Per alcuni versi è possibile dire che l'evoluzione dell'arte cartografica abbia proceduto di pari passo alla rappresentazione dell'Urbe, un problema di non facile soluzione. Una città nuova sorge sopra e attorno ai ruderi soverchianti di una città morta ma non sepolta. La dicotomia urbana che oppone il centro alla periferia, a Roma si traduce nel conflitto tra antico e moderno, dove il primo vale naturalmente quale centro e il moderno quale propaggine periferica. E come solitamente avviene nelle dinamiche metropolitane, la periferia del moderna è negletta, irrimediabilmente espulsa dalla centralità dell'antico. La questione è secolare, per nulla recente come si potrebbe pensare. Al terzo secolo dopo Cristo risale la cosiddetta Forma Urbis, una mappa enorme, incisa nel marmo, 150 lastre per un totale di 13 metri in altezza e 18 per larghezza; in questo primo imponente tentativo di rappresentazione fu adottato un orientamento che si tramandò a lungo: in alto, al posto del nord, c'era il sud-est. All'epoca la scelta aveva una giustificazione religiosa, giacché in questo modo il massimo luogo di culto, il santuario di Giove laziale sul monte Albano, veniva a dominare la città. Un orientamento quasi analogo si riscontra però in mappe molto successive. In quella di Antonio Tempesta, del 1593, mappa che andavo studiando per ragioni diverse proprio mentre ET dipingeva le sue periferie immaginarie. Finché notai qualcosa. La mappa di Tempesta restituisce una vista di Roma come la si potrebbe godere proprio dal punto in cui noi ci trovavamo, dall'American Academy, in cima al Gianicolo. Da questo punto non si ha soltanto la possibilità di abbracciare con lo sguardo l'intera città, ma se ne coglie la sua anima identitaria. Più o meno al centro, si scorge il Campidoglio e, alle sue spalle, la rotondità maestosa del Colosseo. Il fiume disegna una specie di U allungata o, volendo, una grande sacca nella quale sono contenuti i Rioni centrali, Campo Marzio su tutti. In basso, sulla sinistra, San Pietro e il Vaticano. Da qui, proseguendo verso sud, si riconoscono via della Lungara e Trastevere. Tutto ciò che è in basso, al di qua del fiume, ha un che di marginale, rendendo evidente due cose: 1) che Roma non è mai stata una città attraversa dal Tevere bensì affacciata su di esso 2) che Roma è una città che guarda a oriente, ovverosia al tramonto, il che spiega molte cose sul mito della sua caduta. In basso a sinistra, quasi nell'angolo che solitamente si riserva alla firma, Tempesta disegnò infine un'altura da cui parte l'anello murario che cinge tutta l'Urbe, e dunque la stessa mappa, sino al porto di Ripetta. Si distingue benissimo l'ingresso di Porta San Pancrazio al cui fianco sorge ora l'American Academy. Ebbi allora la seguente illuminazione, anche se definirla tale è probabilmente eccessivo: nelle sue corse mattutine, ET non si limitava a un semplice andare e tornare. I percorsi di cui mi parlava (perlomeno finché me ne ha parlato) erano quasi sempre corse di accerchiamento. Lasciava l'Accademia avviandosi verso Sud, seguendo un movimento antiorario. Discendeva il Gianicolo sino a viale Trastevere per poi attraversare il fiume, raggiungendo il Circo Massimo e poi l'Appia Antica, dopodiché cominciava a piegare verso Est, verso San Giovanni, il Casilino, la Tangenziale, il Pigneto. A volte si spingeva sino a Tor Pignattara prima di puntare a Nord, ossia al Nomentano, al Salario, a Villa Borghese, da cui poteva arrivare alla porta di Piazzale Flaminio, che è l'altra porta ben visibile nella mappa di Tempesta. A questo punto poteva prepararsi a chiudere il cerchio puntando all'Ovest, correndo lungofiume fino a Ponte Sisto, attraversato il quale non aveva che da risalire via Garibaldi e il Gianicolo. Ignoro se per ET vi fosse una relazione precisa tra un simile percorso di accerchiamento dell'Urbe e il lavoro che andava realizzando in studio. Per me, vi era. Da un lato i percorsi di ET ricalcavano l'anello antiorario disegnato da Tempesta, dall'altro la cinta muraria — che per Tempesta segna non soltanto i confini della città ma anche il limite estremo di tutto ciò che è valevole di rappresentazione — trovava eco nel bianco in cui parevano levitare gli agglomerati urbani dipinti da ET. Due similitudini che mi parlavano di un'identica ossessione romana, il cerchio cingente come forma urbis, come tratto distintivo della città, un'ossessione che si è ripresentata nei secoli con sembianze diverse e spesso inaspettate, dal foro del Pantheon al sacco di Roma, sino alla più recente manifestazione, il Grande Raccordo Anulare, che per i romani è semplicemente il Raccordo. ….......

Col senso sesto proprio degli artisti o forse grazie alla fortuna che spesso li assiste, scegliendo di tradire il suo metodo, rinunciando alla esplorazione sul campo, ET aveva colto il destino di una città dove il rapporto tra centro e periferia si esprime in un conflitto eterno tra pieno e vuoto, il vuoto che assedia il pieno, il pieno che fagocita il vuoto senza un vero bisogno fuorché quello di per affermare un tracotante ideale di pienezza. La circonferenza, come qualunque altro segno perimetrale, rappresenta un confine, marca la periferia estrema di un'area. ET aveva intuito che questa logica geometrica non si applica a Roma e alla sua realtà suburbana. Il Raccordo, benché circolare, è a suo modo un centro o meglio una successione di centri. Viaggiando sul Raccordo la periferia sembra un'espansione della città, ma non appena si imbocca una delle sue uscite si scopre che ogni svincolo è a modo suo un centro, perché ogni svincolo ha generato un insediamento di qualche tipo, un agglomerato a sé stante, quasi sempre un budello cieco con leggi proprie, staccato tanto dalla città quanto dagli agglomerati sorti attorno agli altri svincoli. Andare da una di queste enclavi a un'altra è impossibile, a meno di non immettersi nuovamente nel Raccordo, il che è come dire che l'insieme di queste enclavi, più che una periferia in senso stretto, è la concrezione edilizia di una strada che non porta da nessuna parte, quasi a farsi beffe del vanaglorioso adagio secondo il quale tutte le strade portano a Roma. Forse inconsapevolmente (ma importa qualcosa?) ET aveva annusato la vanità che per un verso o per l'altro presiede all'esistenza di qualunque cosa in questa città. Le sue visioni aeree, così lontane dal loro contesto, così lontane da qualunque contesto, finivano per negare quel che sembravano essere: mappe. Erano mappe mancate o luoghi mancati ma comunque mappate, il che è in fin dei conti la stessa cosa. Nonostante la meticolosità con cui erano state realizzate, la loro qualità pittorica aveva la meglio su tutto. Erano pura forma, puro colore, pura carta, ma in qualche strana maniera che non capivo e che seguito a non capire, la loro purezza apparentemente gratuita, fine a se stessa, si traduceva in un monito. Ognuna di essa sembrava una vanitas, una di quelle nature morte popolate di teschi, di candele spente, di clessidre e di altri oggetti messi lì a ricordarci che la vita è caduca, condannata alla marcescenza che ogni giorno sperimento affacciandomi alla finestra, guardando i rifiuti lanciati dall'inquilino del terzo piano. Oggi è piovuta in strada una pagnotta intera. Piccioni e gabbiani banchettano tranquilli. Non gira nessuno, tutto sembra lontano. È Ferragosto.

15 agosto 2013